Il linguaggio mafioso è passato attraverso vari codici e varie forme, si è evoluto ma ha sempre svolto una funzione di mantenimento del potere. Per Giuseppe Paternostro i cambiamenti sono processi di adattamento comunicativo ai tempi e al “milieu” culturale in cui il mafioso esercita il suo controllo.
L’excursus storico parte dai primi anni del ‘900 e si conclude nel 2017 con le ultime interviste rilasciate dai figli di Provenzano e di Riina e con le frasi postate nei profili social.
L’analisi viene sviluppata nel libro Linguaggio mafioso. Scritto, parlato e non detto, che inaugura la collana I Saggi di Aut Aut Edizioni (pagine 170, euro 15).
La ricerca su gergo mafioso rivela così che il “baccagghiu” ha una funzione aggregante e al tempo stesso esclusivo delle cosche, rimarca la distanza dalla società, tiene aperto un dialogo tra i membri dei clan.
Tutto serve a proteggere la riservatezza delle comunicazioni interne. I messaggi verso l’esterno passano invece attraverso un uso strumentale dei media. Benché sgrammaticati e semianalfabeti, i boss riescono a costruire una rete comunicativa efficace in grado di ribaltare il valore di parole come “onore”, “famiglia”, “umiltà”, “amicizia” e “verità”.