Il dialetto, l’arma in più di Coriolano della Floresta
Data di pubblicazione: 05/01/2018 | 0 Commenti

Il maxiprocesso contro Cosa nostra, di cui il 16 dicembre scorso si è celebrato il trentennale della storica sentenza che condannò all’ergastolo i membri della Commissione, ha contribuito e gettare luce, fra le altre cose, anche sul linguaggio impiegato dai mafiosi (tutti, compresi i cosiddetti pentiti) e sulle strategie da essi seguite per comunicare fra loro anche in un contesto come quello di un’aula giudiziaria.

Dal maxiprocesso, dunque, non può prescindere chi voglia indagare i meccanismi della comunicazione mafiosa, come ho provato a fare anch’io in un volume da poco pubblicato (“Il linguaggio mafioso. Scritto, parlato, non detto”, Aut Aut edizioni).

La storia di quell’evento epocale è inscindibilmente legata alle figure di Masino Buscetta e Totuccio Contorno, i due pilastri principali dell’accusa. Due personalità diverse sia dal punto di vista della loro caratura criminale sia per il diverso atteggiamento tenuto in aula, che si manifestava soprattutto sul piano delle scelte linguistico-comunicative.
Il primo (noto come boss dei due mondi) era stato il tipico gangster metropolitano, amante della bella vita e per questo sarebbe stato attaccato in aula da Pippo Calò (e qualche anno dopo anche dallo stesso Totò Riina). Secondo Giovanni Falcone, Buscetta era stato una specie di “professore di lingue” per i componenti del pool dell’ufficio istruzione. Il secondo (detto “Coriolano della Floresta”) era stato macellaio, ed era uno dei più fedeli guardaspalle di Stefano Bontade.

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  • Data di pubblicazione: 04/01/2018
  • Testata: La Repubblica
  • Autore dell’articolo: Giuseppe Paternostro

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