Si può tradurre la mafia, con i suoi rituali, la sua gestualità, il suo gergo? Pur non essendone parte integrante? Ci ha provato Giuseppe Paternostro, ricercatore di linguistica italiana che firma il libro Il linguaggio mafioso, edito da Aut Aut e presentato ieri pomeriggio alla Casa della Cooperazione, in via Ponte di Mare.
«Persino la parola che ha scelto per identificarsi esiste solo in quanto alibi per giustificare, all’occorrenza, la propria inesistenza»
Di Cosa nostra e dei suoi padrini analizza modi di fare e di parlare, toni di voce e inclinazioni, espressioni e pizzini. Trasformando il volume in uno strumento conoscitivo e di approfondimento di quello che quest’associazione criminale dice e, soprattutto, di quello che non dice.
«La sua caratteristica più pregnante è questo parlare senza parlare – spiega l’autore -. La mafia è molto altro del semplice non parlare, del semplice silenzio, dell’omertà. Proporrei di togliere il termine “silenzio” e usare “ambiguità”, perché quello della mafia non è insomma un linguaggio assente ma un linguaggio ambiguo, è attraverso il suo dire e non dire che si rapporta col mondo esterno».